Volto le grandi carte di Francesco Caraccio, un tripudio di colori, un movimento di forme inafferrabili che agganciano la sensibilità e la mente, stimolano una speculazione aperta su molti spazi, storia della creatività, etica, ed estetica, memoria ed immaginazione, psicologia e psicanalisi. Viene a proposito un avvertimento di Kandinsky: “La forma insolita nasconde ciò che v’è dietro, così è per la maggior parte degli uomini”; al quale si aggiunge la meditazione di Amiel: “un paesaggio qualsiasi è uno stato dell’anima e chi legge nell’uno e nell’altra è meravigliato di trovare la similitudine in ogni particolare”. Paesaggi totali, dell’essere, non dell’apparire o del rappresentare, se è vero quel che ribadiva Mondrian che “la gloria della pittura contemporanea è quella dell’essere riuscita a staccarsi dalla necessità della figurazione letterale.” Paesaggi quelli di Caraccio che coinvolgono e coniugano, uomo e natura. Una dimensione rallegrata dal vento, che porta semi fantastici, colori anche dell’inconscio, segni araldici che prediligono la concentrazione tonda del nucleo, dell’occhio, della luna. Caraccio alla confluenza di pulsioni e meditazioni, compone immagini sinottiche di sottile fascino, che radunano reperti della vita, brani di sogni, annunci d’altri giardini terrestri, pensieri e sentimenti, silenzi.
S’affermano immagini in sé felici, ingannevoli nella loro apparente istintualità. Dal laboratorio dell’arte astratta (dal quale Caraccio non è distante: così come dall’arcipelago vasto dell’informale), s’alza una voce illuminante, quella di Arp: “L’arte punta sull’uomo come un frutto su una pianta o un bambino nel ventre della madre”.
La nascita e la crescita artistica di Caraccio (pugliese dalle esperienze e dai successi internazionali), si sono sviluppate attraverso giuste, coerenti, esperienze. Anche l’arte come la natura, non fa salti. Rintracciare, com’è possibile, nella storia di Caraccio, una costante di ricerca inesausta (pur all’interno di una stagione di sperimentalismi incontrollabili, di giochi, di azzardi), è abbastanza raro. Con gli occhi ben
aperti, Caraccio non ha tributato ossequi esagerati a lezioni o “ismi”. Non ha firmato manifesti. L’unica indicazione suggerente è la sua amicizia con il pittore belga Corneille con il quale ha anche esposto a Roma nel 1983. Di quelli del Cobra, Corneille è il più mansueto, con suggestioni simbolistiche. La frequentazione di Corneille può avere esaltato in Caraccio la sintassi compositiva, via via più sciolta, dai volti ai simulacri, dalla materia alta, penetrata del tempo figurale alle raffinate trasparenze, alle limitazioni cromatiche; infine l’imperio del colore filtrato, personalizzato.
Peculiare è in Caraccio, l’assunzione nel percorso creativo, della carta, del foglio, lungamente ricercato, auscultato, saggiato nelle sue più segrete risorse. La carta sulla quale, dentro la quale, Caraccio interviene non è più un supporto, un dato preesistente, ma un valore essenziale che si sublima negli interventi dell’autore, in simbiosi con il segno ed il colore, inchiostri, tempere, acrilici e la mediazione dell’acqua. Cresce un organismo cromatico, dalla splendida, assidua contaminazione, dai contagi, degli elementi ammessi all’intervento artistico. Si diffonde sulle grandi superfici, una luce albale, genesiaca; si coglie l’armonia visiva, forme, colori, la materia, sempre raffinati, senza rischiare l’esornatività, con una tensione lirica che ha miti, o violente cadenze, mai cadute.
CRITICA
Alberico Sala
Remo Brindisi
(…) un giovane artista come il Caraccio ha ben diritto di essere erudito e consapevole di un futuro artistico che lo interessa. Credo sia finita l’epoca archeologica nell’arte moderna, almeno per gli artisti, lasciando agli studiosi quelle remore e quei ritardi storici, condizionanti il loro stato naturale, cioè di essere non portati alle intuizioni. A François Caraccio, auguro la libertà di vita e di giudizio, perciò e non credo che questo mio breve scritto debba costituire un giudizio critico,ma soltanto il benvenuto nella terra promessa della pittura, che non è poi poco.
Paolo Levi
Il tempo
Appartengo a quella generazione, nata tra le due guerre, quindi, postromantica e fideista, che non teme l’uso di termini, curiosamente, in disuso, come emozione, trascendenza ed immanenza.
Sono questi gli elementi, comunque, portanti e contraddittori, che fanno interessante ed insolita, nel panorama dell’arte italiana attuale, la pittura di Francesco Caraccio.
Si tratta di un artista, le cui raffigurazioni hanno un raro sapore elitario, a cui ben si addicono queste righe che riprendo dalla “Disumanizzazione dell’arte” di Ortega y Gasset: “L’arte moderna fa si che i migliori si conoscano e si riconoscano nel grigiore della moltitudine e apprendano la loro missione, che consiste nell’essere pochi e dover lottare contro i più”. Caraccio è pittore di ritratti, di visi, che ambirei definire paesaggi umani, una sorta di avvertimenti figurali, inquietanti. Come si sa, egli non fa parte di gruppi, di movimenti programmatici. I suoi tangibili “manifesti” firmati sono dipinti, che testimoniano la fine dell’integrità dell’uomo o, meglio, della sua anima. Non è facile, infatti, per l’intellettuale odierno, pittore o scrittore contemporaneo che sia, interpretare in maniera esaustiva, questo nostro tempo. Un’epoca, infatti, difficilmente imbrigliabile in schemi. Non esistono, infatti, formule magiche per chiarire la crisi dell’uomo, questo contenitore, ormai, senza calore e sensazioni, uso a cercare solo pseudo vitalistiche apparenze,spesso, non gratificanti.
Il luogo
Ho la sensazione che l’uomo contemporaneo rappresentato da Francesco Caraccio sia l’ombra cromatica di se stesso, un ricordo-segno di qualcosa che poteva “avere inizio” e non lo è stato. Sono figure statiche, che dalla loro lontananza esistenziale percepiscono, infatti, “ciò che avrebbero potuto essere”.
Con accento asciutto e deciso, quindi, Caraccio definisce i termini di un mondo figurale sospeso nel silenzio, tra i confini del nulla. Si possono chiamare personaggi, questi? Se vogliamo, anche. Non sono, però, eroi, non gridano odio. Il nostro non è un tempo che può dirsi prometeico. Queste ombre non sono, certamente, martiri esclusi dal perdono eterno.
La tematica di Caraccio non concede certezze. Uno dei messaggi, che noi rabdomanti cerchiamo di captare da questi ritratti, “non risolti dal proprio interno”, è un discorso (utopistico, sin quanto si vuole) di “ecologia umana”: questo che, inquietante, ci si pone innanzi, è, infatti, un palcoscenico di volti senza bocca, senza occhi, solo segni-colore, figure cieche di una trascorsa aristocrazia morale. Forse, sono dei miseri nati solo di testa, non completati dal corpo. Tant’è vero che Caraccio li forma, spesso senza collo, naturale simbolo-segno di congiunzione.
La vicenda pittorica di questo artista non può e non deve essere confusa, quindi, con quella degli artisti della sua generazione, che opera tra l’effimero e il citazionista. Come si sa, viviamo in anni di facili mode, in cui si è, soprattutto, bombardati da notizie, incontri, finti scontri. Tutto questo è letto da Caraccio, con sgomento, in chiave che denuncia, soprattutto, violenza sull’esistente, rappresentata in un’essenzialità dal sapore metafisico, senza giochi di accumuli di simboli.
L’unico simbolo vero, per Caraccio, è l’Uomo.
Trasfigurazione
Per meglio chiarire e completare, nei limiti del possibile, la figura di Caraccio, non solo a livello contenutistico, ma anche pittorico, è indispensabile soffermarsi sulla sua sigla compositiva.
La sua ricerca guarda all’eredità che giunge dall’Espressionismo storico, soprattutto dall’esperienze degli artisti che parteciparono all’esperienza del Cavaliere Azzurro.
Caraccio, pittore essenziale e rigoroso, gioca su lente campiture e sovrapposizioni multicromatiche che interrompono, con trattenuta violenza, l’uniformità del fondo. Per lui, il segno-colore è linguaggio puntualizzante, dai ritmi tra il vivo e il violento. Tutto questo aiuta un ordine stilistico, che ammette spaccati che giocano ambiguamente su luminosità appena percettibili.
Per Caraccio l’uso di certi colori è una scelta imprescindibile. Sono, infatti, impensabili le sue “maschere” senza il rosso, il verde, il blu, il viola. Maschere di rito misterico, contemporaneo.
Romano Giuffrida
C’è qualcosa nelle opere di Caraccio che si lega inscindibilmente alle immagini oniriche (del sogno? dell’incubo?) e che rimanda al linguaggio dell’inconscio, quasi che le tele, le carte o la materia plasmata altro non fossero che istantanee sullo scenario inconsueto dell’invisibile - ma non per ciò meno reale o, in altri termini, meno presente alla realtà. E’ qualcosa che agli occhi disattenti sfugge - e che il nostro vivere quotidiano inebriato di banali e comode superficialità non aiuta certo ad osservare - qualcosa che si situa in quel territorio dell’esperienza che solo gli artisti, eterni nomadi, sanno rintracciare (non senza fatica, non senza dolore ma, anche, non senza l’intima soddisfazione della scoperta o della conferma, lungo le rotte del proprio esistere.
Questo “qualcosa” è il senso - vivo, presente, ineliminabile - dell’indefinito e dell’indefinibile, che vanifica ogni sistema teleologico, il senso cioè di tutto quello che l’uomo comune rimuove (complici la logica, l’ideologia, la religione) con la vana speranza di ricomporre, nell’unitarietà dei significati, l’insostenibile frammentazione dell’essere.
Non è un caso che in molti dei dipinti di Caraccio faccia capolino - come presenza imprevista e, probabilmente, non sempre gradita il “doppio”: un’alterità che, come un’ombra o forse, più precisamente, come un ectoplasma, è parte integrante del soggetto pur essendo “altro” da lui. “I suoi tangibili manifesti firmati - scrive Paolo Levi a proposito di Caraccio - sono dipinti che testimoniano la fine dell’integrità dell’uomo o, meglio, della sua anima” : si tratta dunque, per l’artista, di una precisa “scelta di campo” che mostra agli occhi di chi osserva un mondo privo di quelle accomodanti quanto rasserenanti bugie che la modernità ha imposto nell’affermare irrevocabilmente l’immanenza del tutto. Nulla a che vedere con misticismi o fideistiche visioni del mondo: il segno di Caraccio, sia che si sviluppi in fisionomiche raffigurazioni o che si definisca esclusivamente in tratti cromatici destinati a spezzare l’uniformità dello spazio visivo, è uno sguardo sul “qui e ora” e non su un domani tutto ancora da definire. Attorno a questo “qui e ora” l’artista elabora la sua “critica” e sviluppando ciò che ha ereditato dai maestri (nello specifico Toulouse-Lautrec, Picasso, Van Gogh), ne fa oggetto di superamento attraverso una lettura del reale che, senza concedere nullaalla semplicità rincuorante del noto o all’esorcistico utilizzo del segno trasgressivo, si trova a minare nel profondo le fondamenta stesse
della tradizione. Non si tratta, dunque, di “trovare” o di “dire” La Verità, - unica, incontestabile, visibile, tangibile, capace cioè di fondarsi come “ismo” - : ciò che suggerisce la pittura di Caraccio ha a che fare con la poliedricità dell’Io ovverossia con quella moltitudine di esistenze (e quindi di verità) che compongono il soggetto e delle quali, non per nulla, il soggetto stesso il più delle volte nega l’esistenza. Sono infatti presenze non facili, a volte persino ingombranti, capaci di offrire prospettive interpretative inusuali, anomale, sulle quali lo sguardo di chi osserva è attratto ancor più che dalle figure in primo piano - come se nel “doppio” risiedesse un significato più importante del soggetto stesso (e, d’altra parte, come negare che, dietro le maschere della quotidianità - di rispettabilità o di arroganza, non ha importanza: sempre di maschere stiamo parlando - vi sia qualcosa di più intimamente vero e, in quanto tale, di più interessante?).
L’opera di Caraccio, dunque, è interpretazione del presente e delle figure (fantasmi?) che lo abitano: un’umanità nuda nell’essenzialità rivelata dai visi, spesso senza pupille per vedere o senza labbra per parlare, immobili nella loro fissità inespressiva - come se non ci fossero più parole, sentimenti o emozioni da comunicare ma solo sgomento o indifferenza. E in ciò la denuncia, o forse, più semplicemente, la constatazione, di un tempo, il nostro, al quale nemmeno la Storia può dare più un senso compiuto, un barlume di certezza nel quale l’Uomo - ”unico simbolo vero per Caraccio” scrive ancora Levi - possa riaffermare il suo supposto primato e l’individuo il suo presunto significato.
Pittura come riflessione sul Nulla, dunque, quel Nulla metafisico entro il quale l’Uomo conduce solitariamente la sua esistenza, sospeso nei caotici silenzi del presente e incapace, appunto, di comunicare (se non, simile ormai ad un essere di culture remote, per mezzo di colori che dipingono di sensazioni i visi e i corpi).
Una pittura, quella di Caraccio, che, lacanianamente, l’osservatore deve terminare aggiungendoci del suo, in una sorta di completamento speculare e catartico attraverso il quale riconoscersi e riconoscere le proprie ombre.
Martina Corgnati
L’immagine prende forma, imprevista. All’inizio è un semplice gesto, tracciato in velocità. Quasi come per istinto, per un sentimento che improvvisamente guida la mano, l’occhio, il corpo, il desiderio, l’attenzione verso la carta, verso la superficie bianca; vuota, invitante.
Dicevo: in velocità. Non c’è tempo per controllare, per pensare. C’è un colore, per esempio, poi un altro, a pennellate impulsive, persino grossolane. La superficie reagisce, risponde. Un alone, per esempio, si condensa intorno al tracciato umido del pennello.
Poi ancora, un po’ dappertutto, schizzi, spruzzi, macchie, cenni e tracce di gocce cadute, perdute nel bianco. Wassily Kandinsky a Murnau, verrebbe da pensare, quella sera fatidica quando un suo quadro gli venne improvvisamente incontro, irriconoscibile, però, perché sottosopra. Un’immagine viva in sé stessa, che non rappresentava nulla, scaturita dal semplice contatto con la necessità interiore, con qualcosa di profondo e di vero che persino l’artista ignora ma il quadro invece ha conosciuto.
Kandinsky ancora, insisto, la stagione straordinaria fra il ’10 e il ’14, in quella sua forma squilibrata, nella tendenza a comporre, senza progetto preliminare, per addizione libera di parti, per suggestioni tonali, separando, per così dire, la massa dal gesto, il flusso della mano che traccia e il lago del colore che dilaga in spazi dove, sempre, si intuisce il vuoto, il respiro.
Sto parlando di certe carte di Francesco Caraccio, discendenti dirette dei prototipi dell’espressionismo lirico inventati da Kandinsky in quegli anni di grazia; carte che ricorrono nell’itinerario pittorico dell’artista come un appuntamento periodico, un bisogno costante che punteggia il suo lavoro. Definirle “appunti” è improprio, non fosse altro che per le dimensioni, spesso impegnative, e per il carattere di opere affatto finite, che questi pezzi presentano. La carta non deve ingannare: per Caraccio, infatti, è un materiale non meno importante della tela, con le sue caratteristiche specifiche, la sua versatilità e la sua disponibilità. Anche la velocità di esecuzione non è un limite, è un linguaggio con le sue regole, la sua sintassi. Francesco Caraccio utilizza tutto quello che la fantasia gli suggerisce, sperimenta in piena libertà, una linea, una spirale, una voluta, una curva. Sono gli elementi tipici dell’informale ma identificare come informali queste avventure dello spirito sarebbe perlomeno affrettato, se non fuorviante.
L’artista infatti non si lascia imbrigliare in definizioni di genere o di stile, la sua intenzione è più ampia, il suo percorso completamente differente. Infatti da questi grandi fogli incalzati dalla pittura, da questi interventi pieni di slancio, ripetuti, veloci, alla ricerca di qualcosa che resta indefinito a poco a poco un significante sembra farsi strada, una carta dopo l’altra. Un significante sempre diverso, che pare emergere quasi per densità sua propria dal tessuto leggero dell’immagine complicata da tanti altri segni, tanti altre possibilità: un occhio forse, la linea diritta del naso, il volume elementare di un volto. Francesco Caraccio è alla ricerca appunto di questa manifestazione essenziale, che deve darsi con la naturalezza e la spontaneità di un avvenimento.
Di fronte a tutto questo, la categoria di informale si rivela per quel che è, riduttiva, oltre che superata. C’è indubbiamente una figurazione, o forse meglio, un interesse per la significazione in queste forme che si materializzano una carta dopo l’altra, un lavoro dopo l’altro, per riaffondare poi di nuovo nel tessuto più denso e pastoso di un colore questa volta sfumato, delicato, pieno di accortezze, come in un paesaggio postimpressionista. Eppure qualcosa è ancora in agguato, come in attesa dell’occasione giusta per emergere e sorgere all’esistenza. Qualcosa di incombente, come la belva di Borges, che ci si prefigura in fondo al crepuscolo. È l’uomo, lo spazio umano.
A leggere velocemente queste righe, si potrebbe concludere che Francesco Caraccio sia un artista astratto che, a un certo momento, ha deciso di passare al figurativo e di rappresentare la figura umana. Oppure (ma una cosa non esclude l’altra) che la sua sia pittura in corsivo, insubordinata, una pittura da cui è arduoestrapolare un contorno o un’organizzazione simbolica precisa (educata). In realtà non è così, anzi forse piuttosto il contrario: Caraccio, come pittore, nasce corretto, attento ipercritico verso se stesso. A volergli cercare una casa, considerando il lavoro di alcuni anni fa, in particolare l’affascinante Disperazione dalla tessitura spessa e quasi monocroma, verrebbe da inserirlo nell’ambito di un certo Realismo Esistenziale, fatto salvo quel colore carico e ceroso, colore turgido e sapiente: quasi un romanzo di per sé stesso, che si apparenta per certi versi alle campiture piene del primo Schifano (quello geniale dei monocromi). Dunque, già allora Francesco Caraccio dipingeva figure, personaggi.
La sua abilità ritrattistica è fuori discussione. Tiziano affermava (si dice): “datemi sterco di vacca e vi farò il più bel nudo che possiate immaginare… a condizione che gli altri colori li scelga io”. Similmente Caraccio usa, in questo caso, un grigio bluastro e plumbeo per il volto e per le mani che tengono il cappello, un grigio rialzato appena sulla fronte da tocchi acquatici, da pozzanghera; e incupito invece, nella conca delle occhiaie, lungo la curva della nuca.
Eppure questo volto vive, carico di affettività, eppure intangibile nell’infinita distanza del suo sguardo, che sovrasta una linea diritta nello spazio già astratto. È un ritratto di singolare precisione emotiva, realista, ma già espressionista nelle scelte fondamentali: perché è nell’ambito di questa grande cultura del Novecento che dobbiamo cercare, alla fine, le affinità elettive, i compagni di strada di Francesco.
Niente di sfrenato, tuttavia, niente di intemperante; piuttosto ci troviamo in quelle zone riflessive e meditabonde della ricerca figurativa che si sono annidate fra Monaco e il nord della Germania nei primi due decenni del secolo scorso. A Kandinsky abbiamo accennato, ma bisognerebbe soffermarsi, per esempio, ancora su Nolde o sulla semisconosciuta Paula Modersohn-Becker (1876- 1907), silenziosa protagonista della colonia artistica di Worpswede nello Schlewig-Holstein intorno al 1900; autrice di dipinti molto originali per semplicità, solidità e una pienezza quasi monumentale, sorprendente soprattutto in rapporto ai soggetti umili e quotidiani, fra cui non anche sperimenti il proprio liberissimo fare nel vuoto della superficie, incurante persino dell’immagine – comunque l’artista è riconoscibile, puntualmente sé stesso nella padronanza sempre provvisoria della situazione della pittura; una padronanza che rimbalza da tela in tela, da occasione in occasione, sensibile alle trasparenze cromatiche, alle tensioni sfumate dei chiari, ma capace anche di affrontare un più cadenzato e profondo concerto di toni cupi e bassi, quando le circostanze lo richiedano.
C’è, in queste immagini, una specie di memoria atavica, memoria primaria, che ha a che fare con l’essenza del volto, con la semplice forma archetipica su cui la struttura del volto umano si modella, un codice binario di nero e di colore, di segno e di materia; forma di cui, in fondo, la pittura di Caraccio è in caccia da sempre. È la forza che caratterizza tutto il suo lungo percorso, la sua antica fedeltà a un universale, che fra le sue mani si trasforma nella porta dell’attualità e dell’autenticità della pittura: una porta di cui, però, ben pochi hanno la chiave.
(Catalogo ‘FIGURES: Paesaggi umani’ – Museo d’Arte Contemporanea di Lissone 2007)